La Corte di Cassazione, nella Sentenza n. 19223 del 7 novembre 2012, ha ricordato alcuni importanti principi, affermatisi nella propria giurisprudenza, in materia di studi di settore.
In primo luogo, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata ex lege dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati, ma nasce soltanto in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
In sede di contraddittorio, il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza delle condizioni che giustificano l’esclusione della propria impresa dall’area dei soggetti ai quali possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
Ancora, l’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente. Al riguardo, il contribuente non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non ha risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.
In quest’ultimo caso, però, il contribuente assume le conseguenze del suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.
Alla luce di tali affermazioni, è stato respinto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria. In particolare, nel caso specifico preso in esame dalla Suprema Corte, il giudice di secondo grado aveva correttamente riconosciuto che un numero assai limitato di prestazioni di consulenza, prestate dal contribuente, tutte su incarico dell’autorità giudiziaria, non può essere di per sé prova di un’attività continuativa del tipo presunto nell’accertamento.
a cura dell’Avv. Raffaella De Vico.