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Saggi
6 Dicembre 2014

Indebito utilizzo del plafond I.V.A. all’atto dell’importazione

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Breve analisi delle conseguenze penali connesse al fraudolento utilizzo del plafond I.V.A. all’atto dell’importazione da parte di soggetti privi dei necessari requisiti per poter essere considerati esportatori abituali o dei soggetti “splafonatori”

 

Premesse generali in ordine all’istituto del plafond I.V.A. ed alle modalità di presentazione delle dichiarazioni fiscali in materia I.V.A.

 

Nel sistema previsto dal d.P.R. 633/1972, inerente l’imposta sul valore aggiunto (di seguito, semplicemente I.V.A.), le operazioni attive – se rilevanti territorialmente (ossia quelle che, secondo l’art. 7 del d.P.R. cit., sono poste in essere sul territorio dello Stato o comunque vengono considerate poste in essere su di esso) – sono suddivise in tre grandi categorie, a seconda dell’incidenza fiscale a cui sono assoggettate.

Si distingue, infatti, fra:

_   OPERAZIONI IMPONIBILI, alle quali viene applicata l’imposta secondo le aliquote proprie (4%, 10% o 22%) della particolare tipologia di beni o servizi oggetto di cessione o prestazioni;

_   OPERAZIONI ESENTI, come tali assolutamente esenti dall’applicazione dell’imposta a cagione della particolare rilevanza etica o (più generalmente) sociale della merce o delle prestazioni professionali oggetto di cessione o di prestazione (si pensi, ad esempio, alle prestazioni sanitarie rese dal personale medico o infermieristico che, come noto, sono esenti ex lege da I.V.A.);

_   OPERAZIONI NON IMPONIBILI. Si tratta, nello specifico, di particolari tipologie di operazioni di cessione di beni o di prestazione di servizi che, in linea generale, sarebbero soggette ad imposta ma che, a cagione della particolare destinazione dei beni oggetto di cessione o dei servizi ad essi relativi, non vengono fatte oggetto di imposizione fiscale.

Per quanto riguarda le cessioni di beni, vengono espressamente qualificate (cfr. artt. 8 e 8-bis d.P.R. cit.) “non imponibili” le cessioni all’esportazione o a queste assimilate nonché le cessioni intracomunitarie di beni (cfr. art. 41 D.L. 331/1993), e ciò all’evidente fine di evitare che dei beni, incisi da imposta in Italia, siano economicamente meno “appetibili” da parte dell’acquirente estero.

Identicamente, gli artt. 8-bis e 9 considerano non imponibili (sostanzialmente, per le medesime anzidette ragioni) anche tutta una serie di servizi che, a vario titolo, sono connessi alle operazioni internazionali o, comunque, agli scambi internazionali di beni.

Principio cardine del sistema impositivo dell’I.V.A. è il divieto di duplicazione dell’imposta. A differenza, infatti, della previgente I.G.E. (Imposta Generale sulle Entrate), di cui ha preso il posto nell’ormai lontano anno 1973, quest’ultima non è un’imposta c.d. “a cascata”, ossia non assoggetta ad imposizione la medesima imposta già corrisposta in una precedente fase commerciale, ciò almeno per quanto riguarda la posizione degli operatori economici I.V.A. in quanto, come noto, tale tributo di fatto incide per intero il solo consumatore finale grazie al meccanismo della c.d. “rivalsa” previsto dall’art. 18 d.P.R. cit..

Infatti, in ciascun grado della commercializzazione di un bene, l’imposta – di fatto, e con le regole di funzionamento che di seguito verranno brevemente espresse – colpisce il solo “maggiore valore imponibile” determinato in quella specifica fase di commercializzazione.

Per quanto riguarda le modalità per mezzo delle quali tale caratteristica si esplica, è sufficiente rammentare che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 17 d.P.R. cit., i soggetti passivi d’imposta determinano, con cadenza mensile o trimestrale (in ragione del loro volume d’affari), quando da essi dovuto all’erario detraendo (secondo le modalità previste dai successivi artt. 19, 19-bis e 19-bis1) dall’I.V.A. complessivamente dovuta in relazione a tutte le operazioni attive poste in essere nel periodo considerato l’I.V.A. esposta sulle fatture “passive” (ossia inerenti acquisiti effettuati e dalle prestazioni di servizio fruire) registrate nel corso del medesimo periodo.

In buona sostanza, a fronte di un’operazione attiva (cessione di beni o prestazione di servizi) imponibile per la quale l’operatore economico “carica” l’I.V.A. in fattura al proprio cliente e ne riceve da questi il pagamento, il medesimo operatore vede nascere a proprio carico un debito verso l’Erario; parimenti, in relazione a ciascuna operazione passiva (acquisto di beni o prestazione di servizi) imponibile, il medesimo operatore, il quale ha di fatto versato l’I.V.A. al proprio fornitore/prestatore d’opera, si trova in posizione creditoria verso l’Erario.

Dette posizioni (debitoria e creditoria) con cadenza mensile o trimestrale vengono “chiuse” con la c.d. “liquidazione periodica” ed il relativo risultato, se a debito per l’operatore, determina il suo obbligo di corresponsione dell’imposta dovuta a favore dell’Erario; viceversa, se il risultato di tale operazione è un credito del contribuente verso l’Erario, tale credito potrà essere riportato al successivo mese o trimestre di liquidazione e, in casi estremi, potrà essere richiesto a rimborso con la denuncia annuale I.V.A..

Il sistema sopra delineato vige  (c.s. sistema della liquidazione I.V.A. “per masse”) in generale per tutte le operazioni rilevanti a fini I.V.A., ad eccezione delle importazioni per le quali (cfr. artt. 67 e ss. d.P.R. cit.) l’imposta (e dunque il debito verso l’Erario) viene liquidata e versata separatamente per ciascuna singola operazione doganale (e, fra l’altro, in tale sede l’I.V.A. cessa di essere qualificabile in termini di imposta interna ma diventa, sia a fini sostanziali a fini sanzionatori, vero e proprio diritto di confine ex art. 36 T.U.L.D.);  a fronte di tale liquidazione “operazione per operazione”, il contribuente (se soggetto rilevante I.V.A. ossia, nella sostanza, se titolare di P. IVA.) matura un credito verso l’Erario che può fare valere secondo le medesime modalità sopra indicate, ossia previa registrazione della dichiarazione doganale sul proprio registro fatture passive e conseguente esposizione della sua posizione creditoria verso l’Erario.

E’ evidente, che un simile sistema dovrebbe vedere gli operatori titolari di P. IVA. sostanzialmente in posizione sempre debitoria nei confronti dell’Erario in quanto, per sua stessa natura, un soggetto esercente attività imprenditoriale o professionale tende a generare un valore imponibile I.V.A. maggiore del valore imponibile dei beni acquistati o dei servizi fruiti per l’esercizio della propria attività; fatti salvi, ovviamente, i periodi di crisi economica generalizzata o l’errata valutazione di determinati investimenti produttivi o la semplice incapacità dell’imprenditore “onesto ma sfortunato” sovente citato nei trattati di diritto fallimentare.

Orbene, vi sono invece dei casi in cui questo  meccanismo di liquidazione periodica dell’I.V.A. si risolve in un costante credito del contribuente verso l’Erario pure in assenza degli eventi “particolari” sopra descritti. Si tratta delle ipotesi in cui l’operatore pone in essere operazioni non imponibili o addirittura esenti: in questo caso, infatti, egli matura un credito verso l’Erario all’atto dell’acquisto dei beni o dei servizi necessari per l’esercizio della sua attività, non ingenerando (legittimamente) un debito verso l’Erario all’atto della successiva commercializzazione dei prodotti della sua impresa o della sua professione, e ciò proprio a cagione del fatto che tali operazioni di cessione di beni / prestazione di sevizi sono considerati non imponibili o esenti.

Allorchè il contribuente pone in essere operazioni non imponibili (per quelle esenti, infatti, vige il principio dell’indetraibilità pro-quota), si verrebbe a trovare in posizione di costante credito verso l’Erario, sovente per importi notevoli; posizione che potrebbe chiudere solo con cadenza annuale all’atto della presentazione della dichiarazione annuale I.V.A. ovvero, con cadenza mensile o trimestrale, ma solo all’atto della compensazione fra imposte mediante utilizzo del modello F.24 e comunque entro i limiti di importo a tale fine previsti dall’art. 27 d.P.R. 633/72.

Al fine di evitare tale situazione di paradosso, nella quale l’imprenditore o il professionista divengono sostanzialmente dei “finanziatori a breve” dello Stato, il legislatore ha disciplinato (art. 8 c. 1 lett. c d.P.R. cit. e D.L. 746/1983, convertito in L. 17/1984) la figura del c.d. esportatore abituale, ossia del soggetto che – proprio a cagione della sua particolare attività e del fatto di porre sovente in essere operazioni non imponibili (ex artt. 8, 8-bis, 9, 71 e 72  d.P.R. 633/1972 nonché operazioni di cessione intracomunitaria ex art. 41 D.L. 331/1993) – viene autorizzato a “scomputare” il credito I.V.A. di volta in volta maturato nei confronti dell’Erario dalle singole operazioni di acquisto beni o di prestazione di servizi che, invece, sarebbero fiscalmente rilevanti a suo carico (ossia per le quali il suo fornitore dovrebbe applicare l’I.V.A. operando poi la rivalsa nei suoi confronti).

All’esportatore abituale viene data la possibilità di utilizzare direttamente il credito I.V.A. maturato nei confronti dell’Erario all’atto di ciascuna operazione passiva imponibile; sostanzialmente, il suo fornitore/prestatore d’opera effettua la rivalsa prevista dall’art. 18 d.P.R. 633/1972 non ricevendo in cambio una controprestazione monetaria ma soltanto il “diffalco” di un credito (del soggetto passivo, ossia dell’acquirente) verso l’Erario.

Questa facoltà viene chiamata beneficio del “plafond I.V.A.” e, in particolare, il quantum di credito verso l’Erario utilizzabile a tale fine nel corso di un periodo di tempo ben determinato (che, a seconda dei casi, può essere l’anno solare o un periodo di 12 mesi continuativi anche non coincidenti con l’anno solare) viene chiamato “plafond I.V.A.” (che, a seconda dei casi, viene definito “fisso” o “mobile”).

Ora, non tutti soggetti che pongono in essere operazioni non imponibili o esenti possono fruire di tale particolare regime agevolativo. In particolare, come previsto dall’art. 8 lett. c) d.P.R. 633/1972, tale facoltà è prevista solo a favore dei “soggetti che, avendo effettuato cessioni all’esportazione o operazioni intracomunitarie, si avvalgono della facoltà di acquistare … o importare beni o servizi senza pagamento dell’imposta”.

Inoltre, al fine di essere ammessi al beneficio, tali soggetti devono avere registrato, nel corso dell’anno precedente, cessioni all’esportazione o operazioni intracomunitarie per un totale superiore al 10% del loro volume d’affari complessivo così come definito dall’art. 20 d.P.R. cit., escluso da tale computo il valore delle cessione dei beni in transito e di quelli depositati in luoghi soggetti alla vigilanza doganale (cfr. art. 1 c. 1 lett. a D.L. 746/1983).

Il legislatore, pertanto, pone due requisiti affinché un operatore possa costituire un “plafond I.V.A.” utilizzabile al fine acquistare (o importare, visto quanto in precedenza detto in ordine al particolare atteggiarsi dell’I.V.A. quale diritto di confine in caso di importazione di merci di estera provenienza) beni o servizi senza effettivo pagamento d’imposta (ma con utilizzo del credito maturato nei confronti dell’Erario):

_   in primo luogo, deve trattarsi di un soggetto che ha effettuato operazioni di cessione all’esportazione (o comunque operazioni a queste assimilate ovvero prestazioni di servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali, nella misura in cui siano territorialmente rilevanti, n.d.r.) o di cessione intracomunitaria;

_   in secondo luogo, il volume di tali cessioni o prestazioni deve essere superiore al 10% del volume d’affari come definito ai sensi dell’art. 20 d.P.R. 633/1972, escluso il computo il valore delle cessione dei beni in transito e di quelli depositati in luoghi soggetti alla vigilanza doganale.

Ricorrendo tali condizioni, il contribuente si avvale materialmente di tale facoltà rilasciando al proprio fornitore o prestatore d’opera, all’atto dell’acquisto della merce o del pagamento della prestazione di servizio, ovvero alla Dogana, all’atto dell’importazione dall’estero, una apposita comunicazione redatta secondo un modello prestabilito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si tratta della c.d. “dichiarazione d’intento” (l’utilizzo di tale dichiarazione di intento risulta agli atti della Dogana in quanto, nel campo 47 della relativa dichiarazione doganale, viene indicato il codice numerico 406 seguito dall’esposizione, in numero negativo, del credito I.V.A. utilizzato).

Questa, in particolare, come previsto dall’art. 1 c. 1 lett. c) D.L. 746/1983:

_   in caso di acquisti di beni o di prestazioni di servizi effettuati da un soggetto comunitario, essere resa di volta in volta (dichiarazione per singola operazione) ovvero resa una tantum con validità per un determinato periodo o fino ad un determinato importo d’imposta (c.d. dichiarazione cumulativa);

_   in caso di importazioni, deve essere resa di volta in volta ed allegata a ciascuna singola formalità doganale.

L’art. 8 c. 2 d.P.R. 633/1972 testualmente dispone che “le cessioni e le prestazioni di servizi di cui alla lettera c) sono effettuate senza pagamento dell’imposta ai soggetti indicati nella lettera a), se residenti, ed ai soggetti che effettuano le cessioni di cui alla lettera b) del precedente comma su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità, nei limiti dell’ammontare complessivo dei corrispettivi delle cessioni di cui alle stesse lettere dai medesimi fatte nel corso dell’anno solare precedente …omissis… I soggetti che intendono avvalersi della facoltà di acquistare beni e servizi senza pagamento dell’imposta devono darne comunicazione scritta al competente Ufficio [dell’Agenzia delle Entrate, n.d.r.] entro il 31 gennaio ovvero oltre tale data, ma anteriormente al momento dell’effettuazione della prima operazione, indicando l’ammontare dei corrispettivi e delle esportazioni fatte nell’anno solare precedente[1]. Gli stessi soggetti possono optare, dandone comunicazione entro il 31 gennaio, per la facoltà di acquistare beni e servizi senza pagamento dell’imposta assumendo come ammontare di riferimento, in ciascun mese, l’ammontare dei corrispettivi, delle esportazioni fatte nei dodici mesi precedenti[2] …omissis…”.

Tale disposizione, però, deve essere interpretata alla luce delle modifiche ed integrazioni intervenute, anche a livello amministrativo, nel corso degli anni e relative, in particolare, alle modalità di presentazione delle dichiarazioni reddituali inerenti l’I.V.A. che, come noto, possono essere o dichiarazioni annuali “autonome” (la c.d. “dichiarazione I.V.A.) ovvero dichiarazioni annuali cumulative ed aventi ad oggetto anche le imposte sui redditi e l’I.R.A.P. (il c.d. “modello UNICO). In ogni caso, la dichiarazione cumulativa altro non è se non l’insieme di più distinte dichiarazioni tanto è vero che, sia nella dichiarazione “autonoma” I.V.A. sia nella dichiarazione cumulativa “modello UNICO”, la parte inerente l’imposta in questione è identica ed ha la medesima articolazione e suddivisione interna.

In entrambe tali dichiarazioni esistono dei campi destinati all’indicazione del plafond maturato nel corso del periodo considerato (ossia, in buona sostanza, dell’ammontare del credito I.V.A. che potrà essere utilizzato mediante dichiarazione d’intento secondo le modalità sopra descritte) nonché del plafond effettivamente utilizzato nel corso del medesimo periodo mediante presentazione delle anzidette dichiarazioni: si tratta, in particolare, del quadro VC della dichiarazione Annuale IVA.

 

 

 

Le frodi in Dogana commesse mediante indebito utilizzo del plafond I.V.A.

 

A seguito delle modifiche apportate dal legislatore all’istituto del deposito I.V.A. ed in particolare al suo funzionamento e, nello specifico, a seguito dell’introduzione del divieto di operare in tale regime per i tutti i soggetti economici attivi da meno di un anno, si è assistito ad un netto calo delle frodi commesse mediante ricorso a tale particolare procedura e si assistito ad un contestuale repentino incremento delle frodi commesse mediante indebito utilizzo del plafond I.V.A..

Come già in precedenza osservato, ai sensi dell’art. 8 c. 2 d.P.R. 633/1972, “le cessioni e le prestazioni di servizi di cui alla lettera c) sono effettuate senza pagamento dell’imposta ai soggetti indicati nella lettera a), se residenti, ed ai soggetti che effettuano le cessioni di cui alla lettera b) del precedente comma su loro dichiarazione scritta e sotto la loro responsabilità …omissis” e, pertanto, in linea teorica, dell’eventuale falsità idelogica della dichiarazione di intento presentata al cedente o dell’eventuale “splafonamento” commesso dal cessionario risponde sempre e solo quest’ultimo. Ciò, sia chiaro, salvo il caso in cui il cedente emetta fattura senza addebito di imposta senza aver ricevuto la dichiarazione di intento da parte del proprio cessionario: in tale caso, evidentemente, a quest’ultimo non potrà essere mosso alcun addebito (salvo essere comunque ritenuto corresponsabile del pagamento del tributo avendo comunque ricevuto un bene non gravato da imposta) ed unico soggetto responsabile dell’evasione fiscale sarà pertanto il cedente.

Giova al riguardo osservare come l’utilizzo indebito del plafond I.V.A. (al di fuori, pertanto, del caso di scuola dell’emissione di fattura senza addebito di imposta in assenza di una dichiarazione di intento) possa derivare:

–   dall’assoluta mancanza da parte del cessionario (ossia del soggetto che materialmente emette la dichiarazione di intento) dei requisiti minimi per poter essere considerato esportatore abituale (perché, ad esempio, non ha posto in essere alcuna operazione non imponibile nel corso del periodo di riferimento precedente o perché le ha poste in essere ma per un volume inferiore al 10% del proprio volume d’affari);

–   dall’avvenuto superamento del plafond disponibile, conseguente o ad un errore di calcolo in cui il soggetto è incorso all’atto dell’emissione della dichiarazione di intento o ad una verifica fiscale successiva a tale momento che abbia inciso, con efficacia retroattiva, o sulle modalità di costituzione del plafond ovvero sul suo utilizzo[3].

Dal punto di vista sanzionatorio, l’indebito utilizzo del plafond I.V.A. trova punizione nell’art. 7 D. Lgs. 471/1997, in forza del quale: “3. Chi effettua operazioni senza addebito di imposta, in mancanza della dichiarazione di intento .. è punto con la sanzione amministrativa dal 100% al 200% dell’imposta, fermo l’obbligo del pagamento del tributo. Qualora la dichiarazione sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa. 4. E’ punito con la sanzione prevista nel comma 3 chi, in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dichiara all’altro contraente o in Dogana di volersi avvalere della facoltà di acquistare o di importare merci e servizi senza pagamento dell’imposta … ovvero ne beneficia oltre il limite consentito. Se il superamento del limite consegue a mancata esportazione, nei casi previsti dalla legge, da parte dl cessionario o del commissionario, la sanzione è ridotta alla metà e non si applica se l’imposta viene versata all’ufficio competente entro 30 giorni dalla scadenza del termine per l’esportazione, previa regolarizzazione della fattura”.

In linea  generale, pertanto, l’utilizzo indebito della dichiarazione di intento costituisce a carico del cessionario o – per quanto qui interessa – dell’importatore una violazione amministrativa punita con l’applicazione di una pena pecuniaria di importo compreso fra il 100% ed il 200% del tributo evaso.

Ciò, però, allorché il comportamento tenuto dal soggetto agente sia qualificabile in termini di mera colpa; qualora, invece, sia ipotizzabile a carico del soggetto un dolo e ricorrano i seguenti requisiti economici:

–   imposta evasa superiore, con riferimento a talune delle singole imposte, ad € 30.000,00[4];

–   ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti ad imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, superiore ad € 1.000.000,00[5];

il comportamento tenuto è qualificabile in termini di delitto e trova punizione nell’art. 3 D. Lgs. 74/2000 in forza del quale “1. Fuori dei casi previsti dall’art.2, è punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sula base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie ed avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a talune delle singole imposte, ad € 30.000,00; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti ad imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore ad € 1.000.000,00”[6].

Come noto, però, il D. Lgs. 74/2000 si riferisce ai reati inerenti le imposte dirette, l’I.R.A.P. o l’I.V.A. ma quest’ultima intesa quale imposta “nazionale” o “di consumo”. Abbiamo già in precedenza numerose volte osservato come, all’atto dell’importazione, l’I.V.A. assume natura di diritto di confine e come, pertanto, l’apparato sanzionatorio penale è costituito – in forza del principio della specialità della disposizione incriminante – non dal D. Lgs. 74/2000 ma, bensì, dal T.U.L.D..

Ebbene, essendo il contrabbando un reato “a forma libera”, l’illegittimo utilizzo della dichiarazione di intento all’atto dell’importazione – qualora connotato da dolo – e la conseguente mancata corresponsione dell’I.V.A. in Dogana determina l’evasione di un “diritto di confine” come definito ai sensi dell’art. 34 c. 1 T.U.L.D. troverà punizione nel disposto dell’art. 292 T.U.L.D.; la fattispecie, in particolare, avrà sempre rilievo penale (in sostanza, non potrà mai configurarsi alcuna ipotesi di contrabbando depenalizzato ex art. 295-bis T.U.L.D.) a cagione della contemporanea presenza di un reato contro la fede pubblica e, in particolare, dal reato di cui al combinato disposto degli artt. 48 e 479 c.p. conseguente all’avvenuta presentazione in Dogana di una dichiarazione di intento ideologicamente falsa e nella conseguente redazione di una bolletta doganale affetta da medesima falsità ideologica “derivata”[7].

Non essendo invece rinvenibile all’interno del T.U.L.D. alcuna disposizione specifica avente ad oggetto l’utilizzo, all’atto dell’importazione, di una dichiarazione di intento colposamente redatta in assenza dei requisiti di legge, la disciplina sanzionatoria applicabile non potrà essere che quella di cui al già esaminato art. 7 D. Lgs. 471/1997.

 

 

Conseguenze della qualificazione dell’I.V.A. quale “diritto di confine”: la coobbligazione solidale del rappresentante doganale indiretto in caso di evasione fiscale conseguente ad indebito utilizzo del plafond in Dogana.

 

La Corte di Cassazione ha ormai acquisito un orientamento “monolitico” in ordine alla posizione del rappresentante doganale indiretto, considerato – a buon titolo – coobbligato con l’importatore nel pagamento dei diritti di confine gravanti sulle merci introdotte nel territorio doganale comunitario e vincolate a dichiarazioni di importazione da esso presentate.

Come noto, ai sensi dell’art. 4 § 1 n. 18) del regolamento (CEE) n. 2913/1992 ( di seguito, C.D.C.), il “dichiarante [è] la persona che fa la dichiarazione in dogana a proprio nome o la persona in nome della quale è fatta una dichiarazione in dogana”; il successivo art. 5, prevede che la rappresentanza in doganale possa essere diretta (nel qual caso il rappresentante agisce in nome proprio e per conto di terzi, seppure con la particolarità che – a differenza di quanto accade nella rappresentanza civilista – in quella doganale diretta è comunque prevista quale obbligatoria la contemplatio domini) o indiretta (nel qual caso il rappresentante agisce in nome proprio ma per conto di terzi).

L’art. 201 § 3 C.D.C., poi, è lapidario nell’affermare che “il debitore è il dichiarante. In caso di rappresentanza indiretta, è parimenti debitrice la persona per conto della quale è presentata la dichiarazione in dogana”.

E’ pertanto evidente come il rappresentante doganale indiretto sia de iure considerato coobbligato solidale con il rappresentato non tanto a cagione di una “colpa” del primo nella gestione della pratica doganale (id est, nella redazione della bolletta o nell’interpretazione dei documenti sulla base dei quali questa viene redatta), ma – piuttosto – a cagione della sua posizione di obbligato principale (“il debitore è il dichiarante”) essendo, invece, il soggetto rappresentato il suo sodale.

Queste considerazioni sono ormai ius receptum nel nostro diritto (si vedano, fra le altre, le sentenze della Corte Cass., Sezione V, n. 9248/2013 e 13306/2013 – già fatte oggetto di commento da parte dello scrivente – nonché i più recenti, ma sicuramente non meno importanti, pronunciamenti di legittimità, sempre della Sezione V, n. 9265/2013, 9267/2013, 9268/2013, 9270/2013, 9271/2013 e 14955/2013 (“La   spendita   da parte  del CAD del  proprio  nome  in  qualità  di  dichiarante   ai   sensi dell’art. 201  CDC  fa  sì  che  la  sua  responsabilità  sia  perfettamente solidale   con   quella   del  mandante  (importatore   proprietario   delle merci) e che tale responsabilità possa, quindi, essere fatta  valere,   come nella normale attività negoziale  privatistica,  nei  confronti  di   terzi, fra     cui      sono      comprese,      ovviamente,      le      Pubbliche Amministrazioni.  Infatti  l’art. 201 C.D.C. stabilisce   la  solidarietà  passiva    dello    spedizioniere doganale  o di chiunque presenti la  merce  per  conto  di  altri   con   il soggetto   passivo   dell’obbligazione  tributaria   quando,   come    nella fattispecie,   agisce   nell’ambito   della    rappresentanza     indiretta, diventando lui stesso dichiarante e dunque responsabile  solidale   con   il rappresentato nell’obbligazione doganale”).

Fino ad oggi, però, le decisioni della Suprema Corte hanno avuto ad oggetto ipotesi di “evasione classica” dei diritti di confine, poste in essere mediante i più vari artifici, dall’omessa dichiarazione di parte della merce (differenza di quantità o, in caso di rilevanza penale, contrabbando quantitativo) all’errata dichiarazione di specie o all’errata indicazione dell’origine o alla sottofatturazione.

Non risultavano, almeno a memoria di chi scrive, pronunce di legittimità aventi ad oggetto un fenomeno non certo nuovo, ma comunque aumentato di intensità nel corso degli ultimi anni, costituito dal mancato pagamento dell’I.V.A. all’atto dell’importazione (che resta comunque un’imposta liquidata “operazione per operazione” e riscossa direttamente dalla Dogana) mediante utilizzo o di un plafond I.V.A. inesistente in quanto mai costituito ovvero in quanto ormai esaurito (in tale ultimo caso di parla di “splafonamento”).

Come già visto, l’art. 8 c. 2 d.P.R. 633/1972, prevede l’assenza di responsabilità fiscale a carico del soggetto, cedente di beni o prestatore di servizi, che emetta fatture di vendita all’ordine del soggetto acquirente o del beneficiario del servizio senza esposizione di I.V.A. a fronte di una dichiarazione di intento rilasciata da quest’ultimo: in tale ipotesi, salva la prova dell’eventuale combine fra i due (il cui onere è ovviamente addossato al Fisco), la responsabilità nei confronti dell’Erario dell’eventuale falsità o erroneità della dichiarazione di intento (e dunque dell’inesistenza del plafond I.V.A. utilizzato) è correttamente addossata al solo soggetto che emette la dichiarazione de qua.

Alcune persone hanno interpretato tale disposizione come provante la mancanza di responsabilità da parte del rappresentante doganale il quale, sulla base della documentazione ad esso trasmessa da parte del proprio rappresentato, abbia redatto una bolletta di importazione esponente, nel campo 47, il codice “406” corrispondente, appunto, all’utilizzo del plafond I.V.A..

In realtà, così non è. Infatti:·

  • la disposizione citata non fa riferimento alcuno alla persona dello spedizioniere;·
  • all’atto dell’importazione, non si ha un rapporto bilaterale fra un soggetto cedente il quale emette (in presumibile buona fede) una fattura di vendita senza esposizione dell’I.V.A. in conseguenza dell’emissione della dichiarazione di intento da parte dell’acquirente, ma – piuttosto – la presentazione di un bolletta doganale (tipo atto pubblico a formazione progressiva) espressamente riferita ad un determinato soggetto e redatta sulla base della documentazione nella disponibilità di questi;·
  • in ogni caso, la materia dell’individuazione dei soggetti passivi dell’obbligazione tributaria doganale è oggetto di disciplina diretta da parte dell’ordinamento comunitario dinanzi al quale, notoriamente, il diritto nazionale ha posizione recessiva tanto che, in caso di contrasto, quest’ultimo deve essere automaticamente disapplicato (cfr. Corte Cost., n. 170/1984).

 

Non vi è, in sostanza, alcuna buona fede da tutelare nella posizione del soggetto che importa (o fa importare dal proprio rappresentante indiretto) merci in evasione dell’I.V.A. mediante utilizzo di un plafond I.V.A. inesistente.                  

Risulta quindi evidente che, anche nel caso di mancato dell’I.V.A. conseguente all’utilizzo di un plafond I.V.A. inesistente o ormai esaurito, la disciplina applicabile è – e resta – quella di cui all’art. 201 C.D.C. sopra citato in forza del quale l’obbligato principale al pagamento dei diritti di confine è “il dichiarante” e suo sodale è il soggetto rappresentato; in caso di rappresentanza diretta, invece, essendovi coincidenza fra il soggetto dichiarante e quello rappresentato, si avrà un unico soggetto obbligata, salva – in ogni caso – la presenza di eventuali soggetti coobbligati ai sensi dell’art. 201 § 3 e 202 C.D.C.[8].

 

 

[1]           E’ questo il c.d. “plafond fisso”, costituente il metodo ordinario di calcolo ed utilizzo del credito I.V.A. maturato nei confronti dell’Erario.

[2]           Si tratta del c.d. “plafond mobile”.

[3]          Tipico è il caso delle operazioni di importazione con utilizzo di plafond. In questo caso, infatti, l’utilizzo del plafond deve essere contabilizzato nell’arco del mese solare nel corso del quale l’operazione doganale viene effettuata (ossia in data coincidente a quella della bolletta doganale di importazione) e ciò indipendentemente dalla data in cui la relativa operazione (l’acquisto della merce dall’estero e la relativa importazione) viene annotata sul registro I.V.A. fatture passive.

[4]          La soglia economica è stata così modificata ad opera dell’art. 2 c. 36-vicies semel lett b) D.L. 138/2011; in precedenza, la soglia era di lire 150.000.000.

[5]          La soglia economica è stata così modificata ad opera dell’art. 2 c. 36-vicies semel lett b) D.L. 138/2011; in precedenza, la soglia era di lire 3.000.000.000.

[6]           “Integra il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) qualsiasi comportamento del contribuente, maliziosamente teso all’evasione delle imposte ed accompagnato da una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” (Corte Cass., Sezione III, 02/12/2011, n. 1200).

[7]          Sul punto: Corte Cass., Sezione III, n. 11/07/2007 (udienza del 17/05/2007) n. 27052.

[8]          Tali conclusioni sono state fatte proprie dalla Corte Cass., Sezione V, che con la sentenza n. 7720/2013 in commento ha deciso che: “è inconferente, anche se corretta, la prospettazione  della società,  secondo  cui  la  dichiarazione  doganale  da  essa  compiuta   va nettamente   distinta   dalla    dichiarazione     d’intento    compiuta   e sottoscritta dall’importatrice XXXXXXXX,  della  quale,  quindi,   soltanto  la XXXXXXXX sarebbe destinata a rispondere. Si  deve  infatti  rilevare che  l’obbligazione   IVA   della   quale   la società  YYYYYYYY s.a.s. è chiamata a rispondere  in  via  solidale   deriva dall’importazione   e  non  dalla  dichiarazione   di   intenti   (o   dalla violazione  di tale dichiarazione): l’IVA all’importazione,  a   norma   del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 34, comma 2 e del  successivo  art.  35   (oggi, del D.Lgs. n. 374 del 1990, art.  3,  comma  2)  è  difatti  un  diritto  di confine, che deve essere accertato e riscosso nel   momento  in  cui  si verifica   il   presupposto   impositivo,   costituito     dall’importazione (esattamente in termini, vedi Cass. 20 luglio 2011,   n.   15921;  conformi, tra varie, Cass. 28 maggio 2008, n. 13890; Cass.  3 aprile 2000, n. 3986).   La  sospensione d’imposta di cui al D.P.R. n.  633  del  1972,   art.   8, comma  1,  lett. c)  e  comma  2,  (richiamata,  quanto  alle  importazioni, dall’art.  68 del  medesimo  decreto)  è  istituto  che  non   riguarda   la sussistenza    del    debito   IVA   (né   la    relativa    responsabilità, principale  o solidale), bensì la esecutività di esso,  in   ragione   della possibilità  della  sua  estinzione  satisfattiva   mediante   compensazione con i crediti IVA dell’esportatore abituale    4.1.  –  La rappresentanza indiretta si  estende  a  tutte  le  operazioni doganali,    di   guisa   che   il   rappresentante,   nella   qualità    di dichiarante, è  responsabile  solidalmente  per  il  pagamento  dei  dazi  – nonché, in virtù del quadro normativo richiamato,  in  generale   dei diritti di confine, insieme col proprio rappresentato,  a  norma   dell’art. 201 C.D.C. § 3.   Si tratta, difatti, nel nostro caso, di un’importazione regolare, per   la quale   la  sospensione  dell’imposta  viene  meno,   con   la   conseguente reviviscenza    dell’obbligo   di   pagamento,   per   effetto    del    non avveramento   dell’intento  (o  della  mendacità  di  esso)  oggetto   della dichiarazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8.   Il  novero  dei   soggetti   responsabili   rinviene   la   propria inderogabile   fonte   nel   codice  doganale   comunitario,    giacché…il legislatore dell’Unione ha  inteso  fissare  in  modo  completo,  a  partire dall’entrata  in   vigore   del   codice   doganale,   le   condizioni   per determinare   le   persone  debitrici  dell’obbligazione   …omissis…   La  definizione  del  novero  dei  soggetti   responsabili   per   il pagamento dei dazi  e  dei  diritti  di  confine  nell’ipotesi  disciplinata dall’art.   201  c.d.c.,  direttamente  ed  inderogabilmente   fissata   dal legislatore       comunitario,      comporta      l’inapplicabilità       al rappresentante  indiretto  della norma invocata  dalla  società.  Si  tratta della  disposizione, prevista in  caso   occorra   comunque   il   pagamento dell’imposta   sul   valore    aggiunto    all’importazione   nonostante  il rilascio della dichiarazione d’intento contemplata  dal  D.P.R.  26  ottobre 1972,  n. 633, art. 8, comma  2,  (evidentemente  perchè  essa  non  attesta il  vero),  secondo  cui  dell’omesso  pagamento   dell’imposta   rispondono soltanto i cessionari,  i  committenti   e   gli   importatori   che   hanno rilasciato la dichiarazione stessa  (D.L.  29  dicembre   1983,   n.    746, art.  2,   comma   1,    convertito,    con   modificazioni,   dalla  L.  27 febbraio 1984, n. 17), come  interpretata  dalla  L.  25   luglio  2000,  n. 213, art. 8, comma 3, secondo  cui   la   norma    va    interpretata    nel senso  che   dell’omesso   pagamento  dell’imposta  sul  valore  aggiunto  a fronte  di  dichiarazione  di  intento   presentata   in  dogana  rispondono soltanto  i  cessionari,  i  committenti   e   gli  importatori  che   hanno sottoscritto la dichiarazione  d’intento,   e  non  anche  lo  spedizioniere doganale che l’ha presentata. Il precetto contenuto in tale  disposizione  deve  essere  individuato   – affinché   la   norma   non   rappresenti   una   violazione   del   diritto comunitario  e  sia  come  tale  da  disapplicare  –  esclusivamente   nella esclusione    della    responsabilità   in   capo     alla     spedizioniere rappresentante    diretto    e   non   anche   nella    limitazione    della responsabilità    ai   soli   sottoscrittori   della    dichiarazione     di intento,  con   esclusione   degli  altri   dichiaranti   doganali   ed   in particolare   di    coloro   che   hanno   compiuto   le    operazioni    di importazione in nome proprio anche se per conto altrui. Questa  Corte,  difatti,  nell’escludere  la  responsabilità  dello spedizioniere, anche in base al D.P.R. n.  43  del  1973,  art.  41  che  la fissava  in via sussidiaria (antecedentemente all’abrogazione  dovuta   alla L.  8  maggio  1998,  n. 146, art. 28),  ha  fatto  leva  sulla   disciplina comunitaria, chiarendo che il D.P.R. n. 43 del 1973,  art.   41   dev’essere disapplicato, sia per incompatibilità con l’art.  2.1   regolamento  Cee  n. 1031/88 del 18 aprile 1988 – entrato in vigore   il   1   gennaio   1989   e riprodotto nell’art. 201 § 3 C.D.C. – il  quale  esclude  che  possa   essere chiamato a  rispondere  dell’adempimento   dell’obbligazione  doganale  chi, come lo spedizioniere, abbia agito in  nome  e  per conto  del  proprietario della merce transitata in dogana,  avendo  riguardo,  appunto, alla  qualità di  rappresentante   diretto   rivestita   dallo   spedizioniere.  La  responsabilità  del  rappresentante  indiretto  dichiarante  è logica    conseguenza    della   nozione   stessa   della     rappresentanza indiretta.  Si  consideri  che  la  rappresentanza  indiretta  concerne   i   rapporti interni  fra  ausiliario e  preponente,  di  guisa  che  non  comporta,   in rapporto  ai  terzi  (compreso  l’ufficio  doganale),  alcuna  sostituzione, neanche   limitatamente  alla  fattispecie:  il  rappresentante   indiretto, agendo  in  nome  proprio, quantunque nell’altrui interesse,  diviene  parte sia  della fattispecie, sia del regolamento  che  ad   esso   si   connette, assumendo  per  conseguenza  la  veste  di  obbligato   nei   confronti  dei terzi, compreso l’ufficio doganale.   Né,   comunque,   si   può   ritenere   che   l’esclusione,    in riferimento  al  rappresentante  indiretto,  dell’applicazione  della  norma di  deroga dinanzi citata si ponga in  contrasto   con   i   principi che  regolano nell’ordinamento interno  l’insorgenza  della  responsabilità.   La  Corte  di  giustizia ha al  riguardo  chiarito,  con   riguardo   alla figura   dell’intermediario,   sia  pure  con   riferimento   alla   diversa ipotesi  contemplata dall’art.  202  c.d.c.,  n.  3,   che   la   norma…fa riferimento  al   comportamento  di  un  operatore  diligente   ed   accorto (Corte di giustizia Jestel, punto 22).  5.4.  –  E  va  da  sè   che  la  diligenza  evocata   è   una   diligenza qualificata   (la  società  controricorrente  è  difatti    un’agenzia    di pratiche    doganali    titolare   di   procedura    di     domiciliazione), ragguagliata,  a  norma  dell’art.  1176  c.c.,   comma   2,   alla   natura dell’attività esercitata.   La natura dell’attività  esercitata  non  può  che  implicare  un  obbligo d’informazione,    strumentale   rispetto   al     corretto     espletamento dell’incarico  conferito,  in  ordine  all’effettiva  sussistenza,  in  capo all’importatore,  della qualità di esportatore  abituale,   necessaria   per poter fruire del beneficio stabilito dal D.P.R. n. 633 del  1972,   art.  8, comma 2 direttamente rilevante  ai  fini  della  liquidazione  dei   diritti doganali,   che   appunto   consegue   all’espletamento    delle    attività commesse dalla XXXXXXXX alla s.a.s. YYYYYYYY”

 

 

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