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Saggi
29 Marzo 2014

Imposizione internazionale – 6 – I paradisi fiscali

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Premessa:

Quando si parla di fiscalità, di peso fiscale di un paese, ed in particolar modo quando si pongono a confronto i vari regimi fiscali dei paesi del mondo, si parla spesso di paradisi fiscali.

Il termine viene spesso usato anche quando emergono inchieste e accertamenti fiscali a capo di soggetti noti e stratosfericamente ricchi (nel mondo dello spettacolo, della cultura, dello sport o anche della politica).

Anche la letteratura e il cinema si sono occupati di questo argomento, basti pensare al conosciutissimo romanzo di John Grisham “Il Socio” del 1991 dal quale è stato successivamente tratto il film dall’omonimo titolo ed interpretato tra gli altri da Tom Cruise e da Gene Hackman.

E’ naturale pensare che quei contribuenti che con il proprio lavoro o con i propri investimenti producono redditi particolarmente elevati valutino anche la possibilità di stabilire altrove il proprio “centro degli affari” al fine di poter accedere a normative fiscali più favorevoli.

In questo nostro percorso approfondiremo l’argomento andando ad individuare l’utilizzo legittimo di questi paradisi fiscali senza che ciò trascenda nel concetto di evasione fiscale o di elusione.

In effetti in molti casi il limite o il confine tra corretto spostamento del proprio centro degli affari ed evasione o ancor più elusione fiscale è assai labile e fonte di numerose controversie specie in materia di accertamento.

 

Definizione:

Con il termine paradisi fiscali si identificano quei Paesi che garantiscono un prelievo fiscale particolarmente basso se non addirittura nullo.

Oltre a ciò si deve aggiungere anche un trattamento di favore in termini di scambio delle informazioni fiscali tra i Paesi; infatti i così detti paradisi fiscali adottano il segreto bancario e fiscale, permettendo così l’effettuazione di operazioni finanziarie in totale copertura.

Ciò dipende da scelte di natura politiche interne che si pongono l’obiettivo di attirare nei propri paesi cospicui capitali esteri.

Secondo la guida SocietàOffshore.gov i paradisi fiscali si possono suddividere in:

–  paradisi fiscali in senso stretto: ovvero Stati che non prevedono imposte (né dirette né indirette) o il cui prelievo è quantificabile in una modesta percentuale e in cui sussiste almeno un’altra delle seguenti condizioni:

* mancanza di un effettivo scambio di informazioni;

* legislazione che limita la trasparenza del contribuente;

* assenza di un’effettiva attività economica.

Questi paesi per la maggior parte non hanno aderito all’O.C.S.E.

 

–  regimi fiscali agevolati: ovvero Stati che pur applicando una imposizione fiscale ordinaria offrono altri tipi di vantaggi (legislativi o amministrativi; imposizione fiscale ridotta per particolari soggetti o per determinate categorie di redditi) che rendono comunque conveniente la costituzione in questi paesi di società off shore.

Questi paesi possono anche essere membri dell’O.C.S.E.

 

Secondo il nostro ordinamento fiscale si considerano paradisi fiscali quei paesi in cui il livello di tassazione è inferiore di almeno il 30% rispetto al livello medio di  imposizione fiscale applicato in Italia.

Classificazione dei Paradisi fiscali:

I paradisi fiscali possono così essere classificati:

–  Pure Tax Haven: lo Stato non applica imposte sul reddito, sulla ricchezza, sulle successioni o sulle donazioni, oppure ne impone una solo o più di una di valore nominale e garantisce l’assoluto segreto bancario, non scambiando informazioni con altri Stati.

In questi paesi è possibile costituire società o trust con grande facilità.

Le autorità percepiscono entrate dagli organismi giuridici qui collocati, si tratta, però, di spese fisse indipendenti dalla produzione del reddito.

Generalmente gli Stati che adottano la Pure Tax Haven sono luoghi di villeggiatura (per esempio le Bahama o le Bermuda) prive di altre risorse economiche.

–  No Taxation On Foreign incombe havens: lo Stato tassa solo i redditi prodotti internamente sia da persone fisiche che da persone giuridiche.

L’esenzione dall’imposizione riguarda pertanto i redditi esteri e le attività relative all’economia interna, per cui non sarà mai sottoposto a tassazione il reddito derivante dall’esportazione dei prodotti locali (per  esempio Liberia e Panama);

–  Low Taxation: lo Stato applica una modesta tassazione sul reddito indipendentemente dal luogo in cui lo stesso è stato prodotto (per esempio British Virgin Islands);

–  Special Taxation: si applica nei paesi in cui il sistema fiscale è paragonabile a quello dei Paesi a tassazione normale ma che consentono la costituzione di società particolarmente flessibili (per esempio Liechtestain).

 

I vantaggi offerti dai paradisi fiscali:

I vantaggi possono così essere riassunti:

– bassa imposizione fiscale;

– protezione del patrimonio personale;

– semplificazione burocratica.

Gli Stati che adottano sistemi fiscali “ordinari” tendono a considerare i così detti paradisi fiscali quali sorvegliati speciali, in quanto temono fondamentalmente due aspetti profondamente negativi:

1) l’allontanamento di ingenti capitali conseguiti nel proprio Stato verso Stati che adottano sistemi fiscali particolarmente vantaggiosi;

2) l’utilizzo di questi Stati quali copertura per il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite; questi paesi sono infatti molto interessanti per le organizzazioni criminali.

 

Per tale motivo l’O.C.S.E. in un proprio rapporto ha cercato di definire quelli che potrebbero essere gli elementi identificativi di un uso distorto e al limite della liceità dei paradisi fiscali.

In questo rapporto l’O.C.S.E. ha individuato i punti chiave che permettono di definire la così detta “concorrenza fiscale dannosa”, ovvero:

  •  imposizione fiscale bassa o prossima allo zero;
  •  sistema di tassazione “ring fenced” cioè tassazione con ampia disparità tra redditi generati all’interno e redditi generali all’esterno;
  •  assenza di trasparenza o tracciabilità delle operazioni effettuate;
  •  mancanza di scambio di informazioni con altri paesi;
  •  elevata capacità di attrarre società con unico scopo quello di occultare movimenti di capitale.

Per quanto attiene il segreto bancario e lo scambio di informazioni fiscali e finanziarie, come abbiamo avuto modo di analizzare nel precedente articolo in cui abbiamo trattato il Modello Convenzionale dell’O.C.S.E. abbiamo visto che l’art. 26 è stato recentemente modificato garantendo un maggior scambio di informazioni finanziarie e fiscali, ciò anche in linea con le indicazioni del G20 del 2011 che aveva stabilito la necessità di indicare dei limiti all’applicazione del segreto bancario e allo scambio di informazioni finanziarie individuando anche un percorso sanzionatorio per quegli Stati che non avessero collaborato.

Inoltre, al fine di limitare le emigrazioni all’estero per pure finalità tributarie l’Italia ha introdotto, con la Legge Finanziaria per il 1999, all’articolo 10 della Legge n. 488/1998, particolari norme volte a limitare l’uso distorto di questo fenomeno.

In virtù di quanto prescritto in questa norma si considerano residenti all’estero, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato così come individuati per Decreto.

A tale proposito il Decreto Ministeriale 4 maggio 1999 individua una lista di stati e territori aventi un regime fiscale privilegiato i così detti paesi della Black List:

 

Una curiosità tutta italiana:

E’ considerato paradiso fiscale anche la Città del Vaticano.

La banca vaticana infatti non è sottoposta alle leggi internazionali sulle movimentazioni finanziarie né alle raccomandazioni di organismi internazionali quali ad esempio l’O.C.S.E.

Ciò consente alla banca vaticana, lo I.O.R. (Istituto per le Opere di Religione) di differenziarsi dagli altri tradizionali istituti di credito e di non avere quindi diretto accesso al sistema finanziario internazionale, garantendo maggiore flessibilità e discrezione ai propri correntisti.

Quanto sopra è stato sicuramente vero fino ad un passato recentissimo in quanto il nuovo Pontefice, Papa Francesco, sta attuando una profonda e radicale riforma dell’Istituto che molto probabilmente lenirà la flessibilità tipica di questo Istituto.

 

White List e Grey List:

La Black List, di cui abbiamo parlato precedentemente con l’indicazione anche dei Paesi che ne fanno parte, nasce in contrapposizione alla così detta White List, approvata con Decreto Ministeriale 04.09.1996 pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 220 del 19.09.1996, dove invece sono stati indicati gli Stati che consentono lo scambio di informazioni finanziarie e fiscali.

L’elenco è stato successivamente aggiornato di volta in volta con l’entrata di nuovi Stati che hanno aderito allo scambio delle informazioni (la lista aggiornata  è reperibile presso il sito dell’Agenzia delle Entrate www.agenziaentrate.gov.it).

Oltre alla Black List e alla White List l’O.C.S.E. ha istituito anche una Grey List sempre al fine di monitorare e misurare le credenziali di uno Stato in materia di trasparenza fiscale.

L’Italia è inserita nella White List, in quanto considerata paese virtuoso in materia di fisco e soprattutto di collaborazione (scambi di informazioni fiscali e finanziarie).

 

Classificazione dei paradisi fiscali secondo la normativa italiana:

Da una lettura attenta della “Guida società offshore.gov – la guida al mondo off shore” rileviamo che la legge italiana ha prodotto una classificazione dei paradisi fiscali distinguendoli in tre precise categorie:

  • paradisi fiscali leciti: ne fanno parte Campione d’Italia, Gibilterra, Polinesia Francese, Principato di Monaco;
  • è paradisi fiscali parzialmente leciti: ne fanno parte Antigua, Bahrein, Barbados, Cipro, Cook Islands, Costa Rica, Dominica, Emirati Arabi, Filippine, Giamaica, Libano, Liberia, Malesia, Malta, Montserrat, Panama, Portorico, Saint Lucia, Saint Vincent, Singapore, Svizzera e Uruguay;
  • paradisi fiscali proibiti: ne fanno parte Andorra, Anguilla, Antille Olandesi, Hong Kong, Isole Cayman, Isola di Man, Isole Vergini Britanniche, Liechtestein, Macao, Nauru, Oman, Samoa, Saint Kitts and Navis, Seychelles, Turks and Caicos, Vanuatu.

 

Adempimenti  obbligatori per i contribuenti italiani:

Per quanto riguarda gli adempimenti obbligatori dei contribuenti italiani che hanno avuto rapporti economici con Stati appartenenti alla Black List di cui sopra si ricorda che l’art. 1 del Decreto del Ministero dell’Economica e delle Finanze del 30.03.2010 ha previsto l’obbligo di comunicazione delle operazioni effettuate nei confronti di operatori economici aventi sede, residenza o domicilio negli Stati o nei territori a regime fiscale privilegiato così come individuati dal DD.MM. 04.05.1999 E 21.11.2001.

Il successivo Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 05.08.2010 ha specificato l’ambito soggettivo e oggettivo delle comunicazioni in relazione a specifici settori di attività nonché a particolari tipologie di soggetti, sulla base della delega contenuta nell’art. 1 del Decreto Legge 25.03.2010 n. 40.

La periodicità con la quale dovranno essere inviate telematicamente queste comunicazioni dipenderà dal volume delle transazioni effettuate.

La costituzione di società off shore:

Come abbiamo avuto modo di vedere nella classificazione dei vari tipi di paradisi fiscali, questi Stati favoriscono la costituzione semplificata di società all’estero che qui di seguito indicheremo come società off shore.

Con questo termine intendiamo quello società che sono state costituite e registrate in base alle leggi di paesi esteri, principalmente in quei paesi che adottano sistemi fiscali particolarmente vantaggiosi (tanto che questi paesi vengono definiti a regime fiscale privilegiato) e che soprattutto garantiscono il segreto bancario e quindi l’assenza di scambio di informazioni fiscali e finanziarie con gli altri Stati.

L’attività di queste società è però effettuata al di fuori dello Stato o della giurisdizione dello Stato in cui la stessa è stata registrata.

Queste società spesso vengono costituite a mezzo di società fiduciarie e sono particolarmente diffuse nell’ambito dei gruppi multinazionali.

La loro sede legale è quindi molto lontana dalla residenza della proprietà.

La costituzione di queste società soggiace ad un regime agevolato: procedure snelle, tempi tecnici ridotti, costi contenuti, prevista addirittura la possibilità di costituire queste società anche per posta (ciò ad eccezione della costituzione di società in Svizzera dove sono previste procedure un po’ più articolate).

E’ chiaro che la costituzione di queste società off shore produce, quale effetto negativo per gli Stati a così detta fiscalità ordinaria, un mancato incasso derivante dalla mancata imposizione fiscale sui redditi da queste prodotte.

Ciò nonostante, fatte salve le norme per le attività illecite o criminali, la costituzione di società off shore costituite da un soggetto residente nei paesi a fiscalità ordinaria in un qualsiasi paese estero è legale.

La costituzione di società off shore rischia anche di distorcere l’analisi dei mercati produttivi mondiali, per tutti questi motivi risulta essere importante l’intervento dei partecipanti al G20 di Mosca nel luglio del 2013, quando nella dichiarazione conclusiva il vertice ha sottolineato come “… garantire che tutti i contribuenti paghino la giusta quota di tasse è una forte priorità per ottenere una sostenibilità fiscale e per promuovere la crescita …”.

I membri del G20 hanno inoltre confermato l’appoggio al piano d’azione elaborato dall’O.C.S.E. per colpire l’elusione fiscale e le pratiche di trasferimento degli utili.

A tale scopo, sempre attraverso la dichiarazione conclusiva del vertice, i membri  del G20 hanno invitato i paesi membri a riesaminare le legislazioni nazionali “… affinché non si incoraggino le multinazionali a ridurre le tasse complessivamente pagate, spostando artificialmente i profitti …” in paesi a bassa tassazione, richiamo inequivocabile al ricorso alla costituzione di società off shore.

Ancora, sempre il G20 del 2013 ha dato il via libera al piano O.C.S.E. in 15 punti che dovrebbe costringere queste società a pagare le tasse nello Stato in cui gli utili vengono prodotti e non nello Stato in cui la società (off shore) ha sede.

Per quanto riguarda l’Italia, essendo la stessa inserita nella White List, prevede per esempio che una Società per Azioni con sede in Italia può aprire una società off shore all’estero ma deve giustificare l’operazione alla Consob in termini di produttività.

Ad una lettura rapida e poco riflessiva si potrebbe pensare che per una azienda investire in paesi con regimi fiscali agevolati sia un bene, in realtà ciò aumenta la competizione nel mercato; la globalizzazione ha allargato la scala di riferimento per le imprese, che oggi dovranno anche confrontarsi con competitors provenienti da ogni parte del mondo, quindi anche con aziende che, grazie ad una imposizione fiscale bassa o nulla, possono proporre i propri prodotti a prezzi maggiormente competitivi.

Paradossalmente, se inizialmente si guardava verso i paesi della Black List come mercati a cui accedere rapidamente, ora questi stessi mercati proprio perché individuati e monitorati, si trovano ad affrontare alcune difficoltà nell’assumere un ruolo determinante nel mercato globale.

Risulta infatti preferibile verificare all’interno delle singole legislazioni fiscali nazionali nicchie in cui poter operare con un risparmio fiscale tale da consentire l’immissione del prodotto nel mercato a prezzi concorrenziali.

 

 

Fonti e riferimenti:

  • Modello Convenzionale O.C.S.E. articolo 26;
  • Dichiarazione conclusiva del G20 luglio 2013;
  • Agenzia delle Entrate: i paesi della Black List o della White List
  • Guida SocietàOffshore.gov – la guida al mondo offshore

 

 

Per richiedere approfondimenti, scrivi alla redazione

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